Oggi, mentre bevevo una tazza della buonissima tisana C-sana (formulata dai botanici del Museo Civico di Rovereto), rileggevo gli ultimi sviluppi nel dibattito tra favorevoli e contrari all’utilizzo dell’ingegneria genetica in agricoltura, derivati dalla recente decisione della Corte di giustizia europea di considerare OGM le piante ottenute con tecniche di mutagenesi moderne. E’ evidentemente un dibattito complesso, che trae origine da tanti fattori, tra cui a mio avviso in particolare una diversa abitudine/attitudine a parlare/discutere di dati e una diversa idea limite di applicazione della scienza…, ma su cosa si basa oggi l’opposizione agli OGM?
Mark Lynas, giornalista molto attivo ed autore di un recente volume dal titolo “Seeds of Science” in cui spiega perché ha abbandonato la sua lotta contro gli OGM, racconta che i primi movimenti di opposizione agli OGM (agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso) “non erano solamente contrari all’ingegneria genetica applicata alle piante e a Monsanto. Noi eravamo contrari agli sviluppi nel campo delle biotecnologie nel loro complesso e alle applicazioni tecnologiche ai processi intimi della vita, come la riproduzione. Per questa ragione ci opponevamo all’emergere della clonazione animale e ai diversi avanzamenti nell’ambito della riproduzione umana, tra cui anche lo screening genetico degli embrioni, che vedevamo come una discesa scivolosa verso l’eugenetica”. In gran parte questi dubbi sono ancora molto presenti e per molti la lotta agli OGM rappresenta ancora oggi una sorta di ultimo confine da difendere per evitare la deriva nelle applicazioni della tecnologia alle scienze della vita (deriva per altro non presente a dispetto dei decenni passati dall’introduzione dei primi OGM).
Molto comune negli ultimi decenni è stata anche la posizione di chi, sul fronte opposto, descriveva l’opposizione agli OGM come un rifiuto della scienza e/o delle sue evidenze e la posizione più diffusa pro-OGM si è concentrata su alcuni slogan del tipo “tutte le piante sono OGM perché frutto di manipolazioni genetiche che l’uomo da sempre induce anche semplicemente tramite la selezione artificiale”. James Watson, co-scopritore della struttura del DNA assieme a Francis Crick, scrisse in più occasioni che “il trasferimento di DNA è molto comune in natura” tanto che parlando di modificazioni del DNA “nel catalogo dei rischi che sto scrivendo, alla lettera D inserirei dog, doctor e dioxin ben prima della parola DNA”. Siccome tutto è geneticamente modificato, allora non ci sono problemi… è stata una buona scelta comunicativa? Ripensando allo slogan “senza chimica la vita stessa sarebbe impossibile” che veniva usato in più campagne pubblicitarie da Monsanto per difendere l’utilizzo dei propri prodotti a metà degli anni ’70 del secolo scorso oppure al fatto che tutti dicessero “la vita si basa sulla chimica, quindi la chimica non fa male”, direi proprio di no… anzi pessima idea!
Come scriveva il saggista e attivista britannico George Monbiot: “definire gli oppositori degli OGM come anti-scienza è una definizione ridicola… è come dire che le persone che si oppongono alle armi chimiche sono contro la chimica o che coloro che si oppongono all’energia nucleare sono anti-fisica. Gli OGM, così come le lavatrici o le automobili, sono una tecnologia e serve una decisione politica (che in un mondo ideale dovrebbe essere una decisione democratica) per decidere se vogliamo usarla o meno, in quale contesto vogliamo usarla o non usarla e come vogliamo usarla. Limitarsi quindi a dire che chi si oppone agli OGM è contrario alla scienza è il modo più semplice per ridurre gli oppositori ad esseri irrazionali”.
Per cercare di capire chi oggi si trova sul fronte degli oppositori agli OGM, ho trovato molto interessante il lavoro fatto dai ricercatori Richard Helliwell, Sarah Hartley, Warren Pearce e Liz O’Neill e pubblicato sulla rivista scientifica internazionale EMBO Reports in un articolo dal titolo “Why are NGOs sceptical of genome editing?“. Per cercare una risposta, i ricercatori hanno analizzato le ragioni alla base dell’opposizione agli OGM da parte degli appartenenti a 14 ONG europee (tra cui anche Greenpeace e Friends of the Earth) mostrando alcuni interessanti aspetti, che andrebbero (almeno a mio avviso) attentamente considerati.
Ad esempio, secondo quanto evidenziato da Helliwell et al. il riferimento al fatto che gli OGM sono necessari per sfamare una popolazione in continua crescita e per ridurre la fame nel mondo non solo non risulta convincente, ma al contrario viene visto come un modo per aumentare le produzioni alimentari senza affrontare il problema della ridistribuzione delle produzioni e della riduzione degli sprechi. Ad oggi, principalmente per la contrarietà di molte nazioni africane agli OGM e per gli elevati costi di sviluppo, è vero che gli OGM sono ben lontani dall’avere rappresentato uno strumento per ridurre la fame nel mondo. Forse più che ragionare su slogan così generali, si dovrebbe effettivamente ragionare in termini di esempi più concreti e più specifici. L’ingegneria genetica con piante-bt è risultata molto efficace in diverse sperimentazioni in campo africane, per cui si potrebbe ragionare su casi specifici o, se preferite, su soluzioni specifiche lasciando nel cassetto gli slogan da televendita.
Un altro aspetto su cui Helliwell e colleghi si sono concentrati è relativo al modo in cui viene percepita l’agricoltura convenzionale e in particolare l’agricoltura intensiva basata su estese monocolture e la globalizzazione del mercato (intesa accordi commerciali che rendono più complessa l’identificazione della provenienza di ciò che si mangia). Secondo diversi partecipanti alle interviste di Helliwell et al. ad esempio la continua insistenza sull’imminenza di una prossima crisi alimentare non corrisponde al vero e anzi, il continuo richiamo al fatto che grandi quantità di cibo vengano sprecate, attesta che si potrebbe anche ridurre la produzione senza avere crisi alimentari.
Il terzo aspetto riguarda invece le recenti evoluzioni tecnologiche che vengono viste con grande sospetto non tanto però per i potenziali rischi ambientali dei nuovi OGM, quanto perché queste nuove piante geneticamente modificate potrebbero essere sviluppate non per tutelare maggiormente gli interessi commerciali di agricoltori e consumatori, ma per favorire chi le produce/commercializza.
“La nostra ricerca suggerisce < scrivono Helliwell et al> che l’opposizione alle biotecnologie in campo agrario non possa essere considerata solamente come una reazione emotiva o dogmatica (…). Al contrario l’opposizione delle ONG al genome editing si fonda su tre elementi di scetticismo” legati al modo in cui le produzioni alimentari sono descritte (risulta poco credibile il fatto che si parli crisi alimentare piuttosto che di accesso al cibo), alle soluzioni messe in atto (che sembrano voler lavorare su una ulteriore intensificazione delle produzioni senza tener conto delle possibili ricadute socio-economiche di tali processi) e alle motivazioni presentate per non considerare OGM le piante frutto di genome editing. Preso atto del fatto che ONG di diversa estrazione politica e cultura pongono enfasi diverse su questi tre aspetti, possiamo pensare di rivedere il modo in cui presentiamo gli OGM ragionando più per obiettivo specifico che non per categoria generale? Possiamo ad esempio ragionare su quanto (e in che tempi realistici) le nuove metodiche di genome editing saranno realmente applicate anche in nazioni dove le produzioni alimentari sono rese difficili da uno sfortunato binomio di clima avverso e insetti dannosi? Possiamo pensare di ragionare non solo in termini di OGM per produrre di più, ma mostrare molti più esempi di come produrre in modo più sostenibile? L’invito di Helliwell e colleghi è quindi di provare a costruire un dibattito più aperto e costruttivo in cui riflettere sulle diverse soluzioni tecnologiche adottabili per le produzioni alimentari del futuro, includendo però anche la necessità di avere una accessibilità diffusa alle nuove tecnologie.
Come suggeriva recentemente Daniele Oppo nel suo articolo “Appunti per cambiare il nostro modo di raccontare gli Ogm“: “A meno che non piaccia così tanto la rissa o il confronto urlato (ma c’è sempre uno Sgarbi o un Cacciari in tv per divertirsi), chi davvero ha intenzione di continuare a perorare la causa a favore degli Ogm è bene, forse, che faccia un passo indietro e inizi a raccontarli in un altro modo. Non alimentando lo scontro tra tifoserie opposte brandendo la mazza della scienza contro i bifolchi ignoranti”.
“Dobbiamo pensare <si chiede Mark Lynas in “Seeds of Science> di porre limiti all’ingegneria genetica? Sicuramente, così come accade in tutte gli altri ambiti con ricadute sul mondo che ci circonda. Dove tali limitazioni debbano essere poste è però una questione morale più che scientifica. E’ primariamente una questione di finalità/scopo più che di spiegazione/descrizione e la scienza è decisamente più efficace nello spiegare quest’ultimo aspetto rispetto al primo”. Le nuove tecnologie e i risultati conseguibili andrebbero quindi più spesso raccontati per quello che possono realmente fare andando però in primis ad interpellare chi in campo lavora e chiedendo quindi agli agricoltori cosa realmente serve loro in campo. Questo, forse, contribuirebbe maggiormente a far percepire la tecnologia come realmente al servizio di chi produce. In quanto utilizzatori primari, gli agricoltori potrebbero essere testimoni attendibili della sicurezza dei nuovi OGM e probabilmente in questa fase storica possono godere di una credibilità maggiore anche rispetto agli scienziati. Nei media si parla continuamente di cibo e di ricette, forse nel futuro potrebbe essere utile dare meno voce a scienziati e chef e ascoltare di più gli agricoltori. Forse ascoltandoli di più, non solo la mia tisana sarà “un sorso di conoscenza”.