L’inserto Tuttogreen – La Stampa di martedì 18 settembre contiene un interessante articolo (a firma Marco Magrini) dal titolo “Ammalarsi di clima: il riscaldamento globale peggiorerà la salute e la qualità degli alimenti”. L’articolo mostra come le variazioni climatiche in atto avranno ricadute su numerosi aspetti della nostra salute, alterando anche la qualità e quantità di cibo prodotto.
“Corpore sano in planeta sano, potremmo dire parafrasando Giovenale. Perché non c’è niente da fare: la salute degli esseri umani è legata indissolubilmente alla salute del pianeta sul quale si sono evoluti. (Marco Magrini)
Per quanto concerne la qualità, “uno studio prodotto a Harvard calcola che, con la quantità di gas-serra prevista per metà secolo nell’atmosfera, grano e affini porteranno con sé minori proteine e minori quantità (fra il 3 e il 17%) di ferro e zinco. Sembra poco, eppure potrebbe causare un insufficiente apporto di nutrienti e di micronutrienti, quantomeno nelle nazioni più povere da sempre ritenute le prime vittime del cambiamento climatico”. Secondo i dati riportati sulla rivista Nature Climate Change si può stimare che già entro il 2050 ci saranno 122 milioni di persone che soffriranno per la carenza di proteine e ulteriori 176 milioni saranno quelle a soffrire la carenza di zinco. Saranno rispettivamente l’1,9 percento e l’1,3 percento della popolazione mondiale. Aumenteranno inoltre i casi di anemia a causa delle carenze di ferro con una stima di oltre un miliardo di donne in età fertile e bambini colpiti da tale carenza.
“La nostra ricerca chiarisce che le decisioni che prendiamo ogni giorno – come riscaldiamo le nostre case, ciò che mangiamo, come ci muoviamo, ciò che scegliamo di acquistare – stanno rendendo il nostro cibo meno nutriente e mettendo a repentaglio la salute di altre popolazioni e delle future generazioni”. Samuel S. Myers (Dipartimento di Salute Ambientale, Università di Harvard)
“Grazie agli effetti del cambiamento climatico, saranno gli insetti a fare festa” <scrive Magrini> illustrando uno studio coordinato dall’università di Washington (e pubblicato sulla rivista Science) che mostra come nel prossimo futuro la produzione agricola, soprattutto nelle zone temperate dove si concentrano le coltivazioni di molti cereali, è destinata a calare in modo rilevante. Ricorrendo alla costruzione di modello che tiene conto delle variazioni climatiche sui cicli vitali di insetti e piante coltivate, i ricercatori guidati da Curtis Deutsch hanno stimato che le perdite globali di raccolto per le principali colture aumenteranno dal 10 al 25% per ogni grado di riscaldamento globale della superficie, con un calo più marcato nelle aree agricole più produttive del pianeta, come Stati Uniti, Francia e Cina. Con un aumento di 2 gradi delle temperature superficiali si stima una perdita media, dovuta agli insetti, del 31% dei raccolti di mais, del 19% del riso e 46% del grano, pari ad un totale di circa 213 milioni di tonnellate.
“Le temperature più calde rendono più attivo in proporzione il metabolismo degli insetti. Inoltre, con l’eccezione dei tropici, le temperature più calde aumenteranno anche il loro tasso di riproduzione. Ci saranno quindi più insetti, che mangeranno di più”. Curtis A. Deutsch (Department of Biology, University of Washington)
Quali soluzioni adottare per controllare questa nuova invasione? Difficilmente la via della produzione biologica (in continua crescita in Italia begli ultimi anni) potrà rappresentare una soluzione essendo già ora caratterizzata da una minore produttività. Nell’ambito dell’agricoltura convenzionale una via potrebbe essere quella di mettere gli agricoltori in grado di affrontare la pressione crescente degli insetti con un maggiore uso di pesticidi, correndo però il rischio di possibili danni alla salute umana e all’ambiente (si pensi ad esempio alla già difficile situazione degli impollinatori).
Una via indubbiamente promettente potrebbe passare dal ricorso a piante ottenute ricorrendo al genome editing al fine di rispondere meglio ai cambiamenti climatici e al nuovo “assalto” che arriverà dagli insetti. La scelta dell’UE di regolamentare le piante ottenute ricorrendo al genome editing come OGM rappresenterà però un profondo limite perché:
“le aziende interessate a produrre queste piante dovrebbero dimostrare che non sono pericolose per la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente. Studi di questo tipo richiedono circa 10 anni e un costo di circa 100-120 milioni di euro per ogni pianta e comunque queste piante non sarebbero coltivabili in Italia, dove è vietato produrre Ogm”. Mario Pezzotti (Presidente della Società Italiana di Genetica Agraria)
Una via interessante, almeno per quanto concerne gli insetti, potrebbe derivare dall’ingegneria genetica ed in particolare dal gene drive. Il gene drive funziona assicurando che una proporzione più elevata della progenie di un organismo erediti un certo gene “egoista” rispetto a quanto accadrebbe casualmente, permettendo a una mutazione. Il risultato finale è quindi che il gene “egoista” si diffonderà rapidamente nella popolazione che andrà progressivamente riducendo per dimensione sino ad estinguersi. Questo significa che identificato una specie di insetto dannosa in agricoltura o per la salute umana potremmo, per la prima volta nella storia, programmarne intenzionalmente l’estinzione.
Questo approccio è chiaramente molto interessante ma, come sottolineava Telmo Pievani sull’inserto La lettura del Corriere della Sera del 9 settembre (“Licenza di estinguere? La genetica sfida l’etica), i dubbi non sono al momento solamente “tecnici”:
“Potremmo estendere la tecnica anche all’odiosa zanzara tigre e alle sue cugine che stanno portando anche in Italia pericolose febbri tropicali. Sembrerebbero ragioni morali più che sufficienti per tentare di eradicare i malefici insetti. Eppure anche in questo caso si pone un dilemma bioetico interessante. Qualche avvocato difensore delle zanzare la mette sul piano evoluzionistico: che diritto abbiamo noi, un mammifero comparso 200 mila anni fa in Africa, di programmare l’annientamento di insetti che si sono evoluti su questo pianeta 400 milioni di anni fa? (…) I favorevoli al gene drive ribattono che proprio per ragioni umanitarie sarebbe immorale non tentare, prendendo tutte le precauzioni dovute: ripetute simulazioni in ambienti controllati prima di qualsiasi rilascio; inserzione di geni che restino confinati in una popolazione specifica e non ne contaminino altre; creazione di gene drive alla rovescia che possano invertire il processo in caso di problemi. La paura che qualcosa vada storto rimane, ma l’imperativo morale di salvare così tante vite umane pesa sulla bilancia e tutto lascia pensare che il verdetto finale sarà di condanna per le zanzare”.
Come ben riassume Antonio Saltini nella sua serie di volumi dedicati alla storia delle scienze agrarie (“Storia delle scienze agricole”, Edagricole), l’agricoltura ha cambiato in modo spettacolare la storia dell’uomo, ma costituisce anche il più cospicuo e irreversibile danno ambientale che l’uomo abbia sinora prodotto. Tutte le forme di agricoltura prevedono infatti il ricorso a sostanze per combattere gli insetti, non esiste una agricoltura completamente naturale, in cui le piante siano lasciate in balia degli insetti fitofagi o di insetti vettori di patogeni. L’agricoltura cambia la tipologia di piante presenti in un luogo e influenza la biodiversità, ma non possiamo farne a meno. L’agricoltura dovrà quindi affrontare nuove sfide già nel prossimo decennio, ma ad oggi è decisamente poco chiaro quali saranno gli strumenti di cui doteremo gli agricoltori per continuare a produrre quanto quotidianamente ci serve.
(Mauro Mandrioli)
Fonti:
Deutsch CA et al. (2018) Increase in crop losses to insect pests in a warming climate. Science 361, p. 916-919.
Magrini M (2018) Ammalarsi di clima. La Stampa – Tuttogreen, martedì 18/09/2018, p. II.
Pievani T. (2018) Licenza di estinguere? La genetica sfida l’etica. La lettura del Corriere della Sera, 9 settembre 2018.
Smith MR et al. (2018) Impact of anthropogenic CO2 emissions on global human nutrition. Nature Climate Change 8, p. 834-839.
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