Il glifosate danneggia (forse!) il microbiota delle api

Nelle ultime settimane ha ricevuto grande attenzione l’articolo intitolato “Glyphosate perturbs the gut microbiota of honey bees“, in cui il gruppo di ricerca coordinato dalla nota entomologa americana Nancy Moran dimostra che il glifosate (principio attivo di molti erbicidi di comune uso anche in Italia) altera la composizione del microbiota delle api.

L’articolo, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale PNAS, indica che la somministrazione per via orale di una soluzione contenente glifosate altera la composizione del microbiota delle api operaie, andando in particolare a ridurre l’abbondanza del batterio Snodgrassella alvi, la cui presenza è ritenuta importante per la salute delle api. Questa variazione del microbiota avrebbe un effetto immediato non tanto sulla sopravvivenza delle api, quanto sulla capacità di difesa delle api dai patogeni. Le api con il microbiota alterato sono risultate infatti più sensibili al batterio Serratia marcescens usato dal gruppo di Nancy Moran come patogeno in laboratorio.

Già da anni sappiamo che il glifosate inibisce il funzionamento dell’enzima 3-fosfoshikimato 1-carbossiviniltransferasi (o EPSPS), che in batteri, piante e funghi interviene nella biosintesi degli aminoacidi aromatici (fenilalanina, tirosina e triptofano). La conseguenza è che, in presenza di glifosate, l’enzima EPSPS di alcuni batteri e delle piante risulta inibito/bloccato e pertanto si ha un effetto antibiotico/erbicida. Alcuni batteri presentano invece enzimi EPSPS con ridotta affinità per il glifosate, per cui non risultano sensibili alla sua presenza ed è appunto da uno di questi batteri (e nello specifico da batteri del genere Agrobacterium) che è stato isolato il gene introdotto nelle varietà di piante OGM resistenti al glifosato.

Dato il principio di funzionamento del glifosate non è quindi sorprendente che questa molecola possa avere un effetto “antibiotico” considerato con il microbiota di tutti i viventi contiene batteri con versioni del gene EPSPS potenzialmente sensibili al glifosate. Considerato questo aspetto, non è quindi sorprendente che il gruppo di Nancy Moran abbia trovato un effetto del glifosate. La cosa che però colpisce è che l’effetto osservato si evidenzia esclusivamente alla concentrazione di glifosate più bassa delle due studiate, mentre sarebbe logico attendersi un effetto ad entrambe. La concentrazione più alta usata non risulta invece avere effetti né sul numero totale di specie batteriche presenti né sulle singole specie che in alcuni casi sono presenti addirittura in quantità maggiori rispetto al controllo.

Restando sul tema concentrazione, l’altro aspetto che colpisce sono le quantità scelte che, sebbene riprese da un precedente lavoro, sono molto alte e somministrate direttamente e non attraverso polline e nettare (come accade naturalmente). Sia quindi la quantità che la modalità di somministrazione sono diverse da quelle che si trovano comunemente in natura e questo rende il lavoro difficilmente applicabile a quello che accade in vivo. Per altro, una pubblicazione di Irani Mukherjee (citata come esempio di articolo a supporto della presenza di glifosate nel miele) in realtà non parla di glifosate, ma della presenza di alcuni insetticidi, mentre l’altra pubblicazione citata (Thompson et al 2014) dimostra la potenziale presenza di glifosate nelle arnie (dato che si ritrova nel nettare e nel polline delle piante trattate), ma riporta espressamente che “no adverse effects on adult bees or bee brood development were observed in any of the glyphosate-treated colonies” per cui sembra molto plausibile che la variazione del microbiota associata alla somministrazione di glifosate possa non avere reali effetti dannosi sulle api. Restando sul tema concentrazioni, crea (almeno per me) un po’ di confusione il fatto che i test di sensibilità ai patogeni siano stati fatti con una concentrazione di glifosate diversa dalle due studiate nella prima parte del lavoro e considerato che l’effetto del glifosate dovrebbe avere una risposta legata a tempo e concentrazione queste variazioni nelle concentrazioni di utilizzo del glifosate rendono difficile il raffronto dei dati. A complicare infine l’analisi si deve aggiungere la grande fluttuazione nell’abbondanza delle singole specie batteriche nei controlli (se si confrontano ad esempio i controlli a 1 e 3 giorni) in cui si vedono api in cui Snodgrassella alvi sembra essere assente già in assenza di glifosate.

L’ultima parte del lavoro cerca di chiarire le cause molecolari dei danni arrecati dal glifosate (dimenticando che solo la concentrazione più bassa ha avuto effetti) andando a verificare sei i batteri presenti nel microbiota delle api possiedano enzimi EPSPS sensibili o resistenti al glifosate. L’idea è sicuramente interessante e meriterebbe di essere verificata anche in altri modelli sperimentali, però anche qui il dato è abbastanza controverso perché alcuni batteri sensibili in realtà non solo non diminuiscono per quantità nel microbiota dopo il trattamento con il glifosate, ma addirittura aumentano la loro abbondanza (come nel caso del batterio Gilliamella apicola), tanto che gli autori suggeriscono che la resistenza al glifosate possa avere basi diverse, così come ci sono specie batteriche influenzate dal glifosate sebbene non possiedano il gene EPSPS. Come spiegare quindi i risultati nel loro complesso?

Il glifosate è indubbiamente una molecola che ha effetti avversi su diversi organismi (si pensi a quelli acquatici) e vi sono evidenze di alterazione comportamentali nelle api dovute all’esposizione al glifosate, così come ci sono studi, tra cui quello di Thompson e colleghi del 2014 citato in precedenza, secondo cui l’esposizione delle api e delle loro colonie al glifosate, a livelli superiori a quanto realisticamente sarebbe possibile in natura, non ha effetti negativi per la loro sopravvivenza.

Purtroppo potrà risultare impopolare, ma come scrive spesso Marco Ferrari, giornalista scientifico e autore del libro L’evoluzione è ovunque, non esistono pasti gratis, per cui serve trovare un compromesso tra ciò che usiamo in agricoltura e le conseguenze ambientali. Ad esempio si può provare a rimodulare i disciplinari che definiscono come alcuni principi possono essere usati.  In Italia ad esempio è già in vigore il divieto d’uso del glifosate nelle aree frequentate dalla popolazione o da “gruppi vulnerabili”(quali parchi, giardini, campi sportivi e zone ricreative, aree gioco per bambini, cortili e aree verdi interne a complessi scolastici e strutture sanitarie) e vige il divieto d’uso in campagna in pre-raccolta al solo scopo di ottimizzare il raccolto o la trebbiatura. L’agricoltura di precisione si basa esattamente su questi presupposti e le scelte devono essere guidate da precisi dati scientifici, per cui serve che la comunità scientifica sia particolarmente cauta quando pubblica dati che hanno possibili ricadute politiche. Nel caso specifico di questo articolo sembra invece che la volontà di pubblicare abbia prevalso sulla qualità del dato ottenuto.

 

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