La perdita di suolo naturale in Italia è una ormai costante, come riportato in un recente documento pubblicato dal Centro Studi di Confagricoltura e da ISPRA.
Il consumo di suolo è tema ovviamente fondamentale per la società, ma ancora più rilevante per l’agricoltura, per cui è importante capirne le cause. Come si legge nello studio di Confagricoltura: nel periodo 2006-2016 l’incremento di consumo di suolo in Italia (+12,4%) è stato notevolmente superiore all’incremento della popolazione (+4,4%). Inoltre, nel periodo 1961-2016 in Italia la superficie utile a disposizione della agricoltura si è ridotta di 6,4 milioni di ettari a una media annua di -124 mila ettari. Nello stesso periodo l’urbanizzazione ha occupato 24 mila ettari di suolo annuo. Quei 124.000 ettari di differenza, come si legge nel rapporto, “hanno cessato di essere coltivati per il venire meno della convenienza economica”
“In Italia abbiamo cementificato tanto, e l’abbiamo fatto male, in modo disperso sul territorio, ritrovandoci ad avere habitat naturali frammentati e città vaste ma non densamente popolate. Se prendessimo tutto il suolo cementificato d’Italia e circoscrivessimo attorno un’area di 100 metri, andremmo a coprire il 55% del territorio italiano”. (Michele Munafò, responsabile del rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale sul consumo di suolo).
Non è solo l’aumento di superficie occupata di per sé che determina perdita di suolo. È anche il modo in cui si costruisce. Una costruzione disordinata, caratteristica degli ultimi decenni, frammenta le aree agricole compromettendo l’esistenza delle piccole aziende. Tra il 2000 e il 2010, ad esempio, le aziende di superficie agricola inferiore a due ettari sono diminuite di 680.000 unita per un totale di oltre 420.000 ettari. L’incremento di suolo edificato non esprime però la reale potenzialità agricola perduta con il consumo di suolo, perchè in Italia vi è anche una quota rilevante di suolo – le zone montuose per esempio – non coltivabile né urbanizzabile. Secondo dati della Commissione europea, l’Italia si porrebbe al quarto posto in Europa in termini assoluti di perdita di suolo, ma si pone ai primi posti laddove si consideri la percentuale di perdita di suoli con pendenze inferiori al 10%, quindi i più agevoli per le coltivazioni.
In realtà, la crescita disorganizzata delle città lascia alcuni spazi occupabili in città (ad esempio gli spazi di risulta), tanto che la città può offrire nuove possibilità ad esempio con gli orti urbani.
«Tornare all’orto è un’opportunità per tutti» dice Lorenzo Cilli, 28 anni, di Pescara, co-founder della startup Youfarmer. «Un’opportunità per la natura, che attraverso la produzione di più varietà aumenta la biodiversità delle varie zone coltivate, per le aziende agricole, che a stretto contatto con le famiglie possono programmare il proprio lavoro e garantirsi un equo riconoscimento, e per le famiglie che hanno la possibilità di vivere un’esperienza a contatto con la natura, ma con il livello di servizio che oggi possiamo garantire. Si ottiene con il minimo sforzo il massimo risultato in termini di prodotto e di salute».
Sempre dal recupero di spazi in città può nascere una altra interessante opportunità per l’agrifood che è il vertical farming, o agricoltura verticale. Si tratta di un fenomeno relativamente recente sperimentato localmente e quindi non ancora entrato massicciamente nella grande distribuzione alimentare. Con il vertical farming la logica dell’orto urbano viene rovesciata perché l’agricoltura entra in simbiosi con la verticalità architettonica tipica delle metropoli: edifici slanciati e tecnologicamente avanzati vengono utilizzati per coltivare specie vegetali con costi ed efficienza anche superiori all’agricoltura tradizionale.
Inoltre, nelle fattorie verticali non c’è terra ma le piante vengono nutrite a ciclo continuo con la tecnologia idroponica e affondano le radici in torbe semisintetiche perpetuamente irrigate con acqua e nutrienti.
Le implicazioni ecologiche sono numerose perché la verticalizzazione delle coltivazioni permette un uso efficiente della luce solare, ottenendo una fotosintesi ottimale, mentre con le luci a led si può simulare la luce del sole anche in giornate buie. Le caratteristiche climatiche diventano ininfluenti: ogni fattoria verticale è un ecosistema a se stante isolato dal contesto esterno. E’ la serra del terzo millennio. L’uso di pesticidi – sempre più impopolari – viene ridotto perché l’atmosfera controllata consente di ridurre drasticamente l’impiego di sostanze chimiche. Anche gli sprechi alimentari entrano in un circolo vizioso: le derrate non consumate possono essere utilizzate per produrre fertilizzanti naturali o per generare energia utile all’alimentazione degli impianti.
Alcune vertical farm funzionanti in giro per il mondo attestano le potenzialità di queste nuove realtà: la Sky Green Vertical Farm di Singapore, che rifornisce i supermercati con ciò che coltiva, e lo Zoo di Paignton di Londra (che è arrivato ad autoprodurre il cibo per gli animali che vivono nello zoo) ne sono due ottimi esempi.
Le vertical farm possono invece ottimizzare il proprio funzionamento grazie ad agribot che proprio in ambienti come le vertical farm possono operare nel migliore dei modi. Non ci credete? Guardate nel video sottostante alcune possibilità.