La conservazione della biodiversità è oggetto di discussione da diversi decenni, ma solamente negli ultimi anni è emerso che le specie a maggiore rischio di estinzione non appartengono ai mammiferi, ma agli insetti.
Come riportato in numerosi articoli scientifici, tra le principali cause di declino dell’entomofauna (e in particolare degli insetti impollinatori) vi è l’agricoltura e alcuni insetti, tra cui ad esempio l’ape domestica, sono divenuti veri e propri simboli della necessità di rivedere in modo rilevante le pratiche agricole oggi in uso.
Sebbene sia indubbio che l’agricoltura ha un impatto sia diretto che indiretto sulla biodiversità, identificare le soluzioni più adatte per tutelare la biodiversità non è sempre facile (o forse sarebbe più corretto dire che non è mai facile), come dimostra l’articolo intitolato “Honeybees disrupt the structure and functionality of plant-pollinator networks“, pubblicato dai ricercatori spagnoli Alfredo Valido, Maria C. Rodriguez-Rodrigues e Pedro Giordano sulla prestigiosa rivista internazionale Scientific Reports.
Il team di ricercatori spagnoli ha valutato la struttura dei network di impollinatori-piante impollinate all’interno di una area protetta sulle Isole Canarie nel 2007 prima dell’introduzione di api domestiche e nei due anni successivi (2008 e 2009) al fine di valutarne eventuali variazioni associate alla presenza delle api domestiche. L’idea di base era che l’introduzione delle api comportasse la diffusione nell’ambiente di una specie nota come impollinatore iper-generalista e molto efficace nel competere per le risorse. I dati osservati dai ricercatori spagnoli hanno mostrato che già nel primo anno di introduzione le api hanno portato ad una ridistribuzione degli impollinatori selvatici con, in particolare, una loro riduzione nelle aree più vicine agli apiari.
Sommando le osservazioni dei due anni, l’introduzione delle api ha comportato la riduzione del numero sia di esemplari che di specie degli impollinatori selvatici presenti nelle aree più frequentemente usate dalle api domestiche per bottinare e la riduzione delle specie vegetali visitate dagli altri impollinatori. Andando poi a vedere gli effetti di questa sostituzione, i ricercatori spagnoli hanno osservato che l’impollinazione effettuata dalle api non compensa completamente quella persa dagli impollinatori selvatici, tanto che le specie vegetali visitate in modo pressoché esclusivo dalle api hanno prodotto sia un numero più ridotto di semi/frutti che semi più leggeri, rispetto a quanto fatto dalle stesse specie in aree lontane dagli apiari. Nel complesso quindi il gruppo di ricerca coordinato da Alfredo Valido suggerisce che l’introduzione e la diffusione di api domestiche in aree naturali possa “influenzare negativamente la biodiversità degli impollinatori selvatici, il funzionamento degli ecosistemi e in definitiva la loro resistenza ai cambiamenti ambientali globali”.
Sicuramente questo articolo è destinato a sollevare molte discussioni e presenta alcuni importanti limiti (tra cui il fatto che è uno studio condotto in una singola località, per altro molto particolare da un punto di vista ambientale), però ha il merito di ricordarci che ogni specie che introduciamo ha un effetto sulla biodiversità e le api domestiche, sebbene utili per monitorare la qualità dell’ambiente, sono esse stesse cause di danno alla biodiversità delle specie con cui vanno a competere.
Il suggerimento che viene ribadito in questo articolo è che i servizi ecosistemici legati all’impollinazione funzionano bene quando è presente in campo una ampia biodiversità di impollinatori e che una singola specie non può compensare la perdita delle altre. Sebbene quindi la conservazione degli impollinatori sia vista spesso solo come un problema da risolvere obbligando gli agricoltori ad adottare approcci più sostenibili, la realtà è (come spesso accade in biologia) più complessa.