Tra il 2008 e il 2010 il gruppo di ricerca coordinato da Craig Venter ha mostrato per la prima volta che è possibile riprodurre, con sintesi chimica e successiva ricombinazione in vitro, un intero cromosoma batterico e inserirlo all’interno di una cellula batterica.
I risultati ottenuti con JCVI-syn3.0, questo è il nome in codice del batterio creato dal gruppo di ricerca coordinato da Venter, hanno costituito il primo esempio non solo di sintesi in laboratorio di un genoma, ma anche di minimizzazione del genoma di un microorganismo ovvero hanno permesso di costruire un batterio “minimale”, dotato cioè solamente dei geni necessari a sostenere la vita nella sua forma più semplice. JCVI-syn3.0 è dotato infatti di soli 473 geni.
Negli anni successivi, diversi gruppi di ricerca hanno lavorato al fine di produrre altri microorganismi con genomi minimi e dati interessanti sono stati ottenuti in Escherichia coli, Salmonella e Saccharomyces cerevisiae mostrando che è possibile ridurre le dimensioni di un genoma andando, ad esempio, a rimuovere gli elementi genetici mobili e gli introni. Nel 2014 Annaluru e colleghi hanno creato il primo cromosoma di lievito sintetico, chiamato SynIII, in cui manca la maggior parte dei geni presenti nella sua controparte naturale, ma è ancora perfettamente funzionante se inserito in cellule di S. cerevisiae.
Nelle scorse settimane i ricercatori del Politecnico di Zurigo, coordinati da Matthias Christen, hanno annunciato di avere sintetizzato in vitro un nuovo genoma e di averlo interamente progettato tramite strumenti bioinformatici. Questo annuncio è stato ripreso da molti giornali che hanno annunciato, in realtà in modo non corretto, la comparsa di una nuova forma di vita sintetica andando ad evidenziare non solo un dato non vero (il genoma prodotto non è stato trasferito all’interno di una cellula), ma mancando anche il cuore del lavoro fatto dal gruppo di ricerca di Christen.
Christen e colleghi infatti sono partiti dall’analisi del genoma del batterio Caulobacter crescentus (un batterio innocuo, che vive nell’acqua dolce) per produrre una nuova versione del genoma di questo microorganismo andando a togliere tutto quanto non fosse strettamente necessario. Questa nuova versione sintetica, denominata Caulobacter ethensis-2.0 (C. eth-2.0), contiene solamente 676 geni (in un genoma dato da 785.701 nucleotidi) contro gli oltre 4000 geni normalmente presenti in un genoma di 4.042.929 bp ed è stata interamente progettata in silico avvalendosi cioè di strumenti bioinformatici. In particolare, i ricercatori hanno semplificato il genoma in termini di geni presenti, oltre che eliminato tutti quei tratti del genoma che possono interferire con la sintesi del DNA in un contesto di biologia sintetica. I ricercatori di Zurigo hanno infine ridotto il numero di triplette usate (sostituendo alcune triplette con altre sinonime) per ridurre sia il numero di tRNA necessari alla sintesi proteica che i fattori di rilascio richiesti per terminare la traduzione.
L’aspetto interessante è che per ottenere questi risultati hanno utilizzato uno strumento da loro sviluppato (GenomeCalligrapher) , che è liberamente fruibile on-line e sono riusciti a sintetizzare la versione sintetica del genoma batterico con una spesa di circa 120.000 sterline. Se il risultato ottenuto da Venter era eccezionale da un punto di vista scientifico, in questo caso quello che colpisce di più è che la biologia sintetica diventa uno strumento di concreta applicabilità per produrre batteri il cui genoma è stato pensato in laboratorio.
A cosa serve costruire un batterio con un genoma minimo vi state chiedendo? Le risposte sono numerose e derivano in primo luogo dalla necessità di capire quali geni siano essenziali per la vita e quali funzioni essi svolgano. I genomi minimi possono però essere usati anche per costruire batteri in grado di vivere e replicarsi autonomamente in un laboratorio per poi aggiungere vie metaboliche di interesse per specifici ambiti applicativi. Se lo studio della funzione di un gene è un obiettivo tipico della genetica sin dalla sua origine, l’idea di creare microorganismi completamente pensati in laboratorio è invece proprio della biologia sintetica che, riprendendo una definizione data da George Curch nel suo libro Regenesis, può essere descritta come quella scienza che altera selettivamente i geni di un organismo per far sì che esso faccia “cose” che non avrebbe fatto nel suo originale, naturale e non modificato stato.
L’idea della biologia sintetica è quindi ben oltre le biotecnologie tradizionali che aggiungono da decenni geni ad un genoma. Quello che la biologia sintetica può permetterci oggi di fare è un vero e proprio makeover del genoma di un batterio, ovvero una vera e propria riscrittura del genoma di un microorganismo al fine di programmarlo per fare ciò che ci può servire in laboratorio così come in altri contesti. Come infatti ci dimostra il lavoro fatto dai ricercatori di Zurigo, oggi possiamo prendere un genoma, ristrutturarlo, semplificarlo, produrne una versione sintetica in laboratorio e inserirlo in una cellula di lievito per verificarne la funzionalità prima di procedere con il suo inserimento in una cellula batterica e creare letteralmente un nuovo batterio.
Indubbiamente ad oggi per la biologia sintetica vale il motto “omne vivum ex vivo”, cioè tutto ciò che è vivo deriva da “qualcosa” di vivo, ma la biologia sintetica può ora essere, sia per disponibilità di strumenti che di costo, uno strumento realmente applicabile in molti ambiti, tra cui anche quello agrario oltre che alla produzione alimentare, come ben illustrato anche dai ricercatori Hugh Douglas Goold, Philip Wright e Deborah Hailstones in un recente articolo pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Genes.
A questo punto non resta che una domanda: che batterio volete che vi produca?