Il glifosate causa danni multi-generazionali… o forse no?

L’esposizione al glifosato, l’erbicida finito spesso sotto accusa per i possibili effetti sulla salute, nei ratti provoca danni che si estendono per tre generazioni. Lo afferma uno studio dal titolo “Assessment of glyphosate induced epigenetic transgenerational inheritance of pathologies and sperm epimutations: generational toxicology” pubblicato dalla rivista scientifica internazionale Scientific Reports. O forse no?

Nei giorni scorsi è stato pubblicato un nuovo articolo del gruppo di ricerca coordinato da Michael K. Skinner, noto biologo statunitense specializzato in epigenetica.  Questo articolo incontra e integra due miei interessi: il primo legato all’epigenetica ed il secondo l’agricoltura… quindi dovevo assolutamente leggerlo. Alle grandi aspettative iniziali però ha fatto seguito una enorme delusione, perché purtroppo l’articolo contiene numerose palesi pecche sia nell’analisi dei dati che nella pianificazione/conduzione degli esperimenti e sorprende che queste non siano state evidenziate in fase di peer review dell’articolo. Porre attenzione alla correttezza degli articoli dovrebbe essere lo scopo di tutti i referees, ma questo diviene ancora più importante quando l’oggetto dell’articolo è una molecola che da un lato è estremamente usata in agricoltura e dall’altra è oggetto di numerose discussioni.

Le perplessità che ho avuto terminata la lettura hanno trovato conferma quando ho confrontato la mia interpretazione dell’articolo con quella di altri colleghi e amici che appartengono all’Associazione SETA (Scienze E Tecnologie per l’Agricoltura), assieme a cui ho partecipato alla stesura di una relazione (liberamente scaricabile qui) che evidenzia i molteplici problemi di questa pubblicazione. Non ci credete?

In questo articolo troverete usata una linea di ratti sbagliata per questo tipo di analisi (vi ricordate Seralini? stesso problema), ratti di controllo che muoiono e vengono sostituiti con animali derivanti da altri trattamenti, dosi assurde, via di somministrazione sbagliata e non adeguata al protocollo tossicologico usato, dati scarsamente analizzati e controlli mancanti nelle parti molecolari.. vi pare poco?

Come riportato anche nell’analisi fatta con SETA, nel complesso:

“L’insieme di questi elementi, quando anche non vi fossero problemi – come invece è evidente – nel modo stesso in cui sono riportati i dati, porta a dubitare fortemente dell’attendibilità delle ricerche di un gruppo che sistematicamente cerca di dimostrare la tossicità intergenerazionale di pesticidi, interferenti endocrini, fungicidi, diserbanti e carburanti – “i composti bandiera” dell’ambientalismo ideologico – con manipolazioni di vario genere. Al netto di queste considerazioni, di seguito si riporta l’analisi di dettaglio che ha consentito di raggiungere le conclusioni illustrate“. I coordinatori del gruppo SeTA: Luigi Mariani Michele Lodigiani

Non vi resta quindi che leggere la relazione del gruppo SETA e usare i dati forniti per farvi una idea di quanto poco attendibile sia questo lavoro. 

Per quanto concerne gli aspetti di mia più stretta pertinenza, è ovvio che il tema delle modificazioni epigenetiche è oggi di grande attualità e popolarità, ma proprio per l’entusiasmo che tale argomento genera, non è infrequente che si confondano processi che in realtà hanno cause e basi molecolari ben diverse. Nel complesso purtroppo il lavoro del gruppo di Skinner si caratterizza primariamente per la mancanza di un qualunque meccanismo plausibile di azione epigenetica del glifosate e il dato presentato non è per nulla consistente. Con questo non voglio negare la presenza di possibili eventi di eredità epigenetica, ben dimostrati ad esempio da Dias e Ressler in una pubblicazione su Nature Neuroscience 17, pp. 89–96 (2014), ma ribadire che i dati presentati da Skinner et al. semplicemente non supportano quanto gli autori vorrebbero sostenere.

I componenti del gruppo SETA non sono però gli unici scienziati ad avere espresso perplessità sulla conduzione degli esperimenti di questa pubblicazione, come riportato ad esempio anche qui, oltre che in numerosi siti web e social network.

Il processo di peer review che ogni articolo  deve passare per essere pubblicabile viene definito blind perché non si conoscono i nomi degli scienziati che hanno operato il controllo dell’articolo, qui purtroppo appare blind per altri motivi e sarebbe invece molto interessante sapere chi ha fatto la peer review e come è stato possibile che molti dei palesi errori non siano stati evidenziati.

 

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