“Bio è morto”: l’agricoltura biologica tra realtà e immaginario

Nei giorni scorsi ho letto con piacere e interesse “Bio è morto”, il pamphlet scritto da Felice Modica, agricoltore e giornalista siciliano, e pubblicato da “Il Giornale” nella rassegna “Fuori dal coro”.

Il libro esce in un momento in cui il tema dell’agricoltura biologica è particolarmente ricorrente a seguito della discussione in corso al Senato del DDL 988 in materia di «Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico».

Il libro propone una rilettura critica dei dati a favore dell’agricoltura biologica evidenziandone i vantaggi e svantaggi da un punto di vista ambientale, aggiungendo anche una interessante analisi della componente economica (in particolare per i produttori), aspetto che l’autore ha modo di toccare quotidianamente in quanto agricoltore sia biologico (di agrumi) che convenzionale.

Da un punto di vista ambientale l’agricoltura biologica ha un minore impatto, ma per compensare la riduzione di produttività richiede che vengano ampliate le superfici coltivate andando quindi ad erodere spazi oggi vocati, ad esempio, alla conservazione della biodiversità. Inoltre diversi prodotti ammessi in agricoltura biologica hanno un impatto sulla biodiversità e spesso sono meno efficaci per cui, come sottolinea Modica, “la tossicità dei prodotti autorizzati in biologico è ben peggiore dei corrispondenti fitofarmaci usati in agricoltura convenzionale! Sappiamo tutti che l’ambiente si tutela immettendovi meno fitofarmaci possibili. Il che si può fare solo con un uso accorto, mirato e professionale di fitofarmaci efficaci. Quelli biologici funzionano di meno e, perché funzionino, se ne devono usare di più”.

Il libro evidenzia inoltre in modo efficace il fatto che i prodotti biologici non sono necessariamente migliori e/o più sicuri di quelli prodotti con agricoltura convenzionale da un punto di vista nutrizionale (una analisi di Luigi Mariani è disponibile su Agrarian Sciences). Questo è un aspetto molto importante da considerare dato che, secondo molte analisi di mercato (qui un esempio pubblicato da Repubblica), il 52% di chi acquista biologico ritiene che questi prodotti abbiano maggiori benefici sulla salute e il 47% ritiene che il marchio bio sia garanzia di maggiore sicurezza e qualità dei prodotti. Solo il 26% degli intervistati motiva l’acquisto con il cercare una maggiore attenzione alla salvaguardia dell’ambiente, che può sulla base dei dati essere considerato l’obiettivo più credibile della produzione biologica. Questo risultato ha però precise cause nel marketing che molto spesso associa al biologico il concetto di salute e benessere, tanto che in un recente articolo sul periodico Strade il giornalista Donatello Sandroni definiva queste strategie commerciali come “il business della paura”.

Come sottolinea in diversi passaggi Modica, non abbiamo motivo di dubitare della sicurezza degli alimenti prodotti tramite agricoltura convenzionale (in particolar modo in Italia), tanto che, riprendendo il titolo di un recente articolo di Camillo Langone su Il Foglio, mangiamo molto meglio dei nostri nonni, ma non vogliamo crederci.

Come sottolineava Deborah Piovan, imprenditrice agricola, nel corso di una conferenza, promossa dall’Ardaf, sul rapporto tra scienza, politica e pubblica opinione nell’agroalimentare “la gente vorrebbe un’agricoltura bucolica, che in realtà non esiste e non è mai esistita, rimanendo fossilizzata in un altro tempo. Mentre l’attuale agricoltura è ritenuta un’attività che produce cibo avvelenato e che inquina l’ambiente. L’agricoltura in realtà è un’attività di professionisti che vuole lavorare al meglio e in modo sostenibile.” 

Come ben evidenzia Modica, il settore dei prodotti biologici sta assumendo un’importanza crescente nella produzione agricola italiana, grazie al fatto che i consumi di prodotti biologici sono stati sino ad oggi in crescita cavalcando anche il dualismo che connota il settore produttivo biologico come lo spazio produttivo dei piccoli produttori, contro la Grande distribuzione organizzata (GDO) e le multinazionali dell’agrochimica a sostegno dell’agricoltura tradizionale. In realtà la GDO rappresenta uno dei principali limiti alle produzioni biologiche o meglio alla loro valorizzazione economica, motivo per cui non necessariamente le produzioni biologiche sono più redditizie come vengono descritte.

Gli aspetti economici sono spesso poco considerati nel confronto tra convenzionale e biologico, come se chi produce cibo dovesse lavorare senza avere l’ambizione di trarne un profitto.  Ad oggi sono disponibili diversi studi che confrontano il sistema di produzione biologico e quello convenzionale analizzando gli elementi in grado di influire sulle performance economiche delle aziende, ma i risultati non sono sempre concordanti anche per la diversità delle metodologie adottate e dei gruppi di confronto (problema del tutto analogo a quello in cui ci si imbatte quando si confrontano le rese delle produzioni biologiche spesso presentante per parcella e non per ettaro).

Secondo alcune analisi di mercato, la riduzione di produzione che si registra nel biologico (e di cui maggiormente risentono le aziende in conversione) potrebbe essere compensata, sotto il profilo economico, da un risparmio nei costi di produzione ad esempio a seguito del riutilizzo delle risorse in azienda (es. paglia, letame) e delle pratiche di gestione che escludono pesticidi e fertilizzanti di sintesi chimica. A fronte però di questi risparmi, è necessario mettere in preventivo nella formazione del prezzo maggiori costi per l’acquisto di sementi biologici certificati e maggiori spese in termini di manodopera. Nel complesso quindi il biologico ragionevolmente presenta un prezzo di vendita superiore al convenzionale. Chi paga però questa differenza?

Come ben riporta Mollica, le logiche di mercato non sempre tengono conto di queste differenze di costo associate all’agricoltura biologica per cui gli scenari più comuni sono che la produzione biologica non viene percepita dal consumatore come un beneficio  per l’intera collettività, ma come un costo aggiuntivo a carico degli agricoltori. Non è quindi un caso che vi siano numerose forme di aiuti pubblici erogati in Europa all’agricoltura biologica (oltre la fase di conversione) come forma di compensazione dei benefici ambientali apprezzati (teoricamente!) dalla collettività, ma che il mercato non è in grado di (o non vuole!) remunerare in modo adeguato.

“(…) è stata promossa l’illusione che il bio fosse l’unico metodo in grado di salvare il mondo e farci vivere meglio e di più. Ma non esistono prove scientifiche a confermarlo, anzi le analisi dicono che i prodotti biologici non sono qualitativamente migliori e che il bio su larga scala è insostenibile in quanto per le principali colture produce fino al 50% in meno, richiedendo il doppio della terra. Per convertire il mondo a biologico quindi dovremmo rendere coltivabili altre centinaia di milioni di ettari sottraendoli a foreste e praterie”. (Senatrice Elena Cattaneo)

L’aspetto che però ho più apprezzato del libro è l’invito finale ad andare oltre il dibattito tra biologico e convenzionale… tutte le tipologie di agricoltura hanno come obiettivo quello di essere sostenibili sia per l’ambiente che per l’agricoltore da un punto di vista economico. Non serve quindi, ed è anzi dannoso, inserire in un disegno di legge la possibilità che solo la ricerca in ambito di agricoltura biologica sia finanziata, ma è necessario che siano messi a disposizione dell’agricoltura tutti gli strumenti utili per rispondere alle sfide del futuro, tra cui in primis i cambiamenti climatici.

“E’ mai possibile <scrive Camillo Langone su Il Foglio> che l’innovazione tecnologica sia positiva in ogni ambito tranne che in quello agroalimentare? Nessuno oggi vorrebbe una macchina anni Cinquanta, senza servosterzo, senza airbag, senza aria condizionata, coi freni che non frenano… E allora perché tutti vogliono un’agricoltura anni Cinquanta?”. Per assicurare un futuro all’agricoltura c’è una sola ricetta da seguire e Mollica la illustra nell’ultimo paragrafo: “è la ricerca da finanziare e da promuovere come investimento per il futuro, volto ad assicurarci una vita più lunga e più sana. Allo stato attuale, coltivare ottenendo prodotti che, all’atto della raccolta, presentino residui chimici zero è non solo auspicabile, ma possibile. Ecco penso che questo dovrebbe essere il primo immediato obiettivo di una politica agricola italiana”.

 

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