Nei giorni scorsi ho letto, con grandissimo piacere, l’ultimo libro di Barbara Gallavotti, biologa, scrittrice e giornalista scientifica, autrice di “Le grandi epidemie. Come difendersi” (edito da Donzelli Editore).
Il libro è un’analisi lucida e molto attuale di alcune delle più importanti epidemie che hanno scritto la storia dell’umanità, dalla peste alla poliomelite, passando alle più attuali pandemie dovute a HIV e Ebola.
Il libro illustra le cause e le possibilità di ritorno di molti patogeni del passato e mostra, in modo decisamente efficace, l’importanza che i vaccini hanno avuto e ancora oggi hanno nel combattere virus e batteri. Ho trovato inoltre decisamente efficace la scelta dell’Autrice di spiegare come i vari farmaci (sia antibiotici che vaccini) sono nati e quali problemi potremmo avere in futuro se non li usiamo correttamente (o decidessimo di non usarli affatto!).
Tra gli elementi che mi hanno più colpito ci sono però le numerose e forti assonanze con quanto sta accendendo in agricoltura e questa penso che sia una ottima dimostrazione dei tanti bias cognitivi con cui conviviamo ogni giorno.
L’Autrice scrive che siamo tra le prime generazioni nella storia a non vivere nel terrore del contagio di una patologia grave, “eppure, negli ultimi anni, ci stiamo comportando in modo da rinunciare o rendere inutili proprio le migliori difese di cui disponiamo”. La sensazione è che stiamo vivendo una sorta di amnesia collettiva, per cui “protetti dai loro effetti più nefasti, non siamo ormai più in grado di renderci conto della loro potenza distruttrice. E letteralmente stiamo costruendo un immaginario passato di convivenza felice fra noi e i microbi patogeni che nella realtà non è mai esistito”.
Così come in agricoltura molte persone fanno riferimento ad un passato immaginario in cui il cibo era abbondante, sano e disponibile per tutti (a dispetto delle numerose carestie ben riportate nei libri di storia), oggi molti fanno riferimento ai tanti fumetti e giornalini letti mentre erano a casa con il morbillo, quasi fosse stata una vacanza, a dispetto del fatto che anche solo negli anni ’80 del secolo scorso la malattia causava oltre due milioni di morti all’anno.
Avendo dimenticato le epidemie, alcuni vogliono mettere la bando ciò che ci ha permesso di dimenticarli: i vaccini. Allo stesso modo, nell’illusione di aver vissuto in un paradiso alimentare perduto, impediamo agli agricoltori di poter disporre delle innovazioni necessarie (anche genetiche) per costruire nuove varietà e combattere le patologie che colpiscono le coltivazioni.
Il libro di Barbara Gallavotti mi ha fatto ricordare di un ottimo articolo della giornalista Silvia Kuna Ballero dal titolo “Le malattie delle piante che hanno scritto la storia umana. Tra carestie, epidemie, abitudini alimentari e miti popolari” che mostrava dinamiche del tutto simili. Dimenticando la portata delle patologie a carico di piante coltivate (si pensi all’epidemia di peronospora in Irlanda), all’arrivo di Xylella in Puglia alcuni proposero di abbracciare le piante.
Lo stesso vale per gli agrofarmaci, senza cui difficilmente potremmo produrre molto di ciò che mangiamo, ma anche in questo caso siamo vittime, come ben scrive Antonio Pascale, di un sapere nostalgico, per cui “tutto quello che è accaduto nel passato ha grande valore mentre tutto ciò che è presente è corrotto”.
“Chi vincerà alla fine l’eterna guerra <si chiede Barbara Gallavotti in chiusura del libro> fra gli esseri umani e gli agenti infettivi? Difficile pensare che li sconfiggeremo tutti e per sempre, ma probabilmente possiamo aspirare a una situazione di stallo nella quale saremo in grado di tenere gli avversari sotto controllo se non abbasseremo la guardia”.
L’evoluzione ci insegna che bisogna correre per restare dove si è (direbbe la Regina Rossa ad Alice) ovvero i patogeni, siano essi umani o in grado di infettare le piante, evolvono continuamente, per cui qualunque vittoria sarà sempre temporanea.
«Qui, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio!»
Il sapere nostalgico ci induce a pensare che è bene tornare al passato, rinunciare alle innovazioni, ma proprio l’evoluzione biologica ci insegna che chi smette di correre può soltanto… estinguersi!