Nei giorni scorsi, seguendo il suggerimento di Anna Maria Pellegrino (la bravissima chef di cui seguo il lavoro su La cucina di qb), ho letto “Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro“, l’ultimo libro scritto dallo storico medievale e dell’alimentazione Massimo Montanari.
Come già il titolo dichiara, lo scopo del libro è mostrare come si è arrivati, nel corso del tempo, alla definizione di quello che, oggi, può essere considerato un vero must identitario nazionale, ovvero un piatto di spaghetti al pomodoro, cioè “una di quelle cose che riteniamo profondamente connaturate alla nostra cultura, illudendoci forse che ne siano parte da sempre”.
In questo italianissimo piatto troviamo il pomodoro che, dopo essere partito dall’America Latina, è diventato fra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento oggetto di studio di alchimisti, che ritenevano avesse delle proprietà afrodisiache, per poi divenire parte integrante della cucina dell’Europa meridionale – Inghilterra e Francia in primis – a partire dal Settecento. A dare il via alla pratica delle conserve, ci pensarono i contadini di Parma, che lasciavano essiccare i pomodori al sole prima di trasformarli in salsa, subito seguiti da numerose realtà nell’Italia del Sud.
Anche il peperoncino viene dall’America, come tutte le varietà di peperone. A portarlo nel Vecchio Continente è stato, nel 1494, il medico Diego Álvarez Chanca, al seguito di Colombo nel suo secondo viaggio oltreoceano. Precoce è anche l’ingresso del peperoncino nella salsa di pomodoro, tanto che si trova questo abbinamento sia in una ricetta proposta nel 1628 dallo spagnolo Francisco Hernández, che nella prima ricetta italiana di salsa di pomodoro «alla spagnola», datata 1692 e firmata da Antonio Latini.
Dall’Asia centrale sono invece arrivati aglio e cipolla che però diventano compagni di viaggio nella la salsa di pomodoro solo nel XIX secolo. Non fu immediato neppure il successo del basilico, nativo dell’India e forse anche dell’Africa tropicale, che veniva coltivato in area mediterranea fin dall’età classica, ma solo occasionalmente e sempre come pianta medicinale. Nell’uso di cucina entrò tardi, anche per i giudizi non precisamente incoraggianti che ne davano i testi di dietetica di Galeno che lo definiva dannoso per lo stomaco, pesante da digerire e generatore di cattivi umori.
Non può infine mancare l’olio di oliva, la cui patria di origine va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore, anche se da millenni è un elemento distintivo della cultura mediterranea. Condire con l’olio di oliva è diventato però abituale in Europa solo nella seconda metà del Novecento.
Avendo ora preparato il “sugo”, passiamo agli spaghetti che sommano tante storie, tutte ugualmente interessanti. ll grano duro ha origine nell’Africa centro-orientale, ma si deve probabilmente a commercianti ebrei la diffusione nel Mediterraneo occidentale delle modalità di preparazione della pasta secca, un alimento utile come variante del pane ed essiccata per favorirne la conservazione. Ma è probabile che tale ricetta avesse origini asiatiche, se non forse addirittura egizie.
Come sottolinea Montanari, il bello della cucina è che non si cura dei confini, ma prende gli ingredienti, “li mescola e li mette in gioco, facendoli interagire. Squisito il basilico, ma nessuno mangia basilico da solo. Squisito il peperoncino, ma nessuno mangia peperoncino da solo. Squisita la pasta, ma nessuno mangia pasta senza condirla. La cucina è fatta di prodotti, certo, ma soprattutto di ricette. ‘Ricette’ dal latino recipio: prendo (di qua, di là, quello che mi serve) e compongo. Anche le più autoctone delle ricette, quelle basate su prodotti ‘locali’, non saranno mai così integralmente locali da escludere apporti di origine diversa”.
“La storia del nostro piatto, la ricerca delle sue origini e delle sue radici – economiche, sociali, politiche, culturali – ci ha costretti < scrive Montanari> ad attraversare molteplici territori e a fare i conti con abitudini alimentari, modalità produttive, tecniche e procedure distanti nel tempo e nello spazio. Una lunga serie di innovazioni, dislocate in epoche e luoghi diversi, ha contribuito a creare questa tradizione così tipicamente italiana. Durante il viaggio abbiamo incontrato prodotti antichi, medievali e moderni; prodotti antichi e medievali rivisitati dall’uso moderno; prodotti moderni conformati a usi antichi; prodotti abbandonati per via mentre altri li sostituivano; combinazioni a volte prevedibili, a volte sorprendenti”.
“Quando si mangia <scrive Montanari>, e quando si parla di cibo, gli equivoci e le mistificazioni sono all’ordine del giorno, e di forte impatto emotivo. Tutto ciò che riguarda la cucina e la tavola, infatti, richiama valori e suggestioni profonde, connesse all’identità della persona. Realtà materiale (i modi di vivere) e realtà mentale (i modi di pensare) come sempre interagiscono, e in questo caso come in altri – forse più che in altri – l’immaginario è condizionato da pregiudizi, luoghi comuni, miti, fantasie, idoli. Quello delle ‘origini’ è il più forte e si impone all’attenzione individuale e collettiva, in una declinazione sia temporale, sia spaziale”.
Come Montanari scrive nei capitoli finali, “il cibo è uno straordinario segno identitario, sia per il principio di incorporazione connaturato al gesto di mangiare, sia per i valori extranutrizionali, di natura simbolica, legati alla cultura del cibo in ogni società. Per questo il cibo è un potente segnale di appartenenza a una comunità; per questo gli epiteti gastronomici sono così diffusi, a volte in chiave di orgogliosa auto-rappresentazione, a volte in chiave di dileggio, per irridere gli altri – chiunque essi siano. (…) Questa piccola grande storia ci ha mostrato – nella concretezza di un piatto di spaghetti – che l’identità non corrisponde alle radici. L’identità è ciò che siamo. Le radici non sono ‘ciò che eravamo’ bensì gli incontri, gli scambi, gli incroci che hanno trasformato ciò che eravamo in ciò che siamo. E più andiamo a fondo nella ricerca delle origini, più le radici si allargano e si allontanano da noi – proprio come accade sotto le piante. Usando la metafora fino in fondo, scopriremo che le radici, spesso, sono gli altri. Cercare le origini di ciò che siamo sarà dunque un modo per incontrare gli altri. Gli altri che vivono in noi”.
E’ infine interessante osservare che tanto il cibo quanto le ricette evolvono come le società, che in modo del tutto analogo ai nostri spaghetti sono fatte di tante componenti diverse, che dobbiamo imparare a dosare e a far dialogare. Una delle analogie più efficaci che ho trovato in questo senso è sicuramente di Marco Malvaldi che, nel suo romanzo “Odore di chiuso“, crea un parallelismo tra società e maionese. Come scrive Malvaldi “per fare la maionese bisogna procedere con calma e metodo. Se si mette tutto insieme e poi si sbatte, si formano dei brutti grumi e si dice in gergo che è impazzita.” Se però si lavora con pazienza si ottiene “qualcosa che non è acqua e non è olio, eppure è assai più pregiata delle componenti di partenza” e si ottiene una “cosa” in cui anche componenti non miscibili come olio e acqua possono stare assieme. Lo stesso vale per le società umane, puoi anche sbatterle con forza, ma solamente lavorando con metodo e pazienza all’integrazione degli ingredienti potrai ottenere qualche cosa di utile, che sarà sicuramente anche più pregiato degli ingredienti di partenza.