Il verde urbano tra valore estetico, naturalistico e culturale

Da qualche mese è disponibile in italiano il quarto volume di Fredrik Sjoberg, autore molto noto in Italia per il suo libro best seller “L’arte di collezionare mosche” (su Pikaia ne avevo parlato qui).

L’ultimo libro, dal titolo “Perché ci ostiniamo” (edito da Iperborea), è decisamente diverso dai tre volumi precedenti (L’arte di collezionare mosche,  Il re dell’uvetta e L’arte della fuga) che costituivano una sorta di trilogia dedicata alla ricerca della meraviglia nella natura, in quanto è una raccolta di saggi costruiti attorno a storie dimenticate e/o ai più sconosciute, accomunate da un aneddoto iniziale, e che di divagazione in divagazione portano il lettore  a seguire narrazioni insolite e mai banali.

Nel complesso il volume è abbastanza deludente per il lettore “fedele” a Sjoberg e sembra configurarsi in molti capitoli come una sorta di guida al modo in cui si può costruire una “bella storia” parlando di scienza.

Il brillante entomologo ha il raro dono di riuscire a coniugare la scrittura tipica del saggio con la narrazione intesa in senso letterario, in un magma di storie in cui il lettore si perde; dove la veridicità di quanto esposto passa quasi in secondo piano, lasciando il posto al puro gusto della lettura. (Flavia Scotti)

Tra i nove saggi presenti in questa raccolta, alcuni sono molto attuali per il tema che affrontano e giustificano da soli l’acquisto del volume. In particolare, uno dei saggi più intriganti è dedicato ad Anna Lindhagen (1870-1941), che fu tra i fondatori dell’Associazione Svedese per la Protezione della Natura e che partecipò alla assemblea costituente all’Accademia delle Scienze nel 1909: “Come quasi tutti i presenti in sala <scrive Sjoberg> Anna Lindhagen non era una persona qualunque, ma una figura ben nota nei circoli intellettuali dove la questione della protezione e della conservazione della natura trovò per la prima volta, ascolto. (…) Era figlia del potente giurista e deputato Alber Lindhagen, l’uomo che più di ogni altro legò il suo nome alla trasformazione di Stoccolma da un ammasso disordinato di vicoli e casa in una moderna città di pietra. (…) Oggi siamo in molti ad apprezzare le aree coltivate a giardino come oasi della diversità biologica, se non altro sotto forma di rare erbacce, e anche Anna era senza dubbio consapevole dell’importanza degli uccelli e delle piante, ma ancora più importante era che gli operai della città e le loro famiglie avessero un pezzetto di terra di cui prendersi cura”.

Come scriveva Anna Lindhagen in un suo articolo ad inizio del ‘900: “una natura profonda e sensibile può trovare nel giardino quella pace che inutilmente cerca nel frastuono della città. Una natura rozza o egoista può affinarsi e diventare soccorrevole sotto l’influenza di ciò che per crescere dipende dalle sue cure”. Essere letteralmente con le mani nella terra diventava un modo per riprendere contatto con la natura anche perché “una sensibilità per la natura diffusa tra il popolo è la principale condizione per la difesa della natura stessa”.

Il tema del verde urbano è oggi di grandissima attualità e un crescente numero di città ha iniziato a dedicare parte del proprio verde non solo ai parchi, ma anche a progetti di agricoltura urbana. A questa nuova idea di uso degli spazi verdi urbani sono da ricondurre i sempre più diffusi orti urbani, spazi destinati alla coltivazione e ricavati da aree del verde pubblico. Questi spazi, oltre a fornire prodotti per il consumo familiare, concorrono spesso a preservare aree verdi interstiziali tra le aree edificate perlopiù incolte e lasciate nel degrado. Alla base del successo degli orti urbani troviamo spesso una crescente attenzione alla salute e alla qualità nel cibo, grazie alla possibilità di coltivare, e quindi controllare direttamente, ciò che si mangia oltre che un ritrovato amore per la terra e la sua concretezza.

La coltivazione di suolo pubblico non si limita però alle aree specificatamente dedicate ma può riguardare anche spazi urbani marginali, come aiuole, sponde dei fiumi, margini ferroviari, spesso per iniziativa autonoma dei cittadini, senza cioè che vi sia una concessione riconosciuta dall’ente pubblico, come avviene con la diffusione del guerrilla gardening, movimento che interagisce con lo spazio urbano attraverso i cosiddetti “attacchi” verdi, occupando e rilevando un pezzo di terra abbandonato per farvi crescere piante o colture.

Accanto agli orti urbani realizzati su spazi pubblici, sono sempre più numerose le aree che i privati destinano ad “uso coltivazione” nei cortili e sui balconi delle abitazioni, dove gli ortaggi prendono il posto di rose e piante ornamentali. Infine, crescono gli orti con una funzione riabilitativa, come gli orti delle case circondariali (aree alternative per il reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti), gli “orti-scuole” (intesi come aree per attività didattico-educative per i ragazzi di scuole di ogni ordine e grado) e gli orti destinati all’ortoterapia, intesa come attività di giardinaggio e orticoltura a supporto di programmi riabilitativi per persone diversamente abili.

Come Anna Lindhagen auspicava per Stoccolma più di un secolo fa, oggi il verde urbano (anche grazie alla spinta che deriva dall’agricoltura urbana) è sempre più ricorrentemente un elemento che si inserisce direttamente nell’ambito dell’urban design, inteso come momento di progettazione per la valorizzazione del verde pubblico, dei vuoti urbani da riempire, oltre che un modo per riqualificare aree urbane degradate o abbandonate.

In diverse occasioni numerosi autori, tra cui anche Sjoberg, hanno suggerito che l’idea di conservazione della natura usata nel passato sia da considerare superata. Questa idea viene ripresa da Sjoberg anche in “Perché ci ostiniamo”: “Quello che cerco è una nuova (almeno in parte) estetica, il che ovviamente può anche dipendere dal fatto che personalmente sto abbandonando lo stadio del collezionista, il trafficare con animali, per cercare invece di afferrare il racconto nella sua totalità. Non fraintendetemi, nessuno è stato più felice di me quando la politica di protezione ambientale si è orientata alla preservazione della biodiversità. E’ stata ed è una politica efficace ed è anche necessaria per una quantità di ragioni, non ultima quella pedagogica. La lista rossa delle specie minacciate ha reso quantificabile il problema in modo quasi altrettanto evidente dei metodi di analisi biochimica che in passato hanno aperto la via a misure severe contro l’uso di mercurio, DDT e simili veleni, misure che oggi ci appaiono scontate ma che a quell’epoca richiesero un ampio consenso politico. Come ho detto non sostengo che sia tutto rose e fiori… cerco solo di indovinare cosa accadrà”.

Almeno a livello urbano possiamo azzardare una previsione legata al fatto che il verde urbano sarà sempre più richiesto e valorizzato in quanto vero e proprio spazio di aggregazione dove fare incontrare fasce sociali e generazionali differenti, oltre che uno strumento per inserire il cittadino nell’ambiente in cui vive, trasformandolo in un cittadino attivo. Lavorando concretamente su uno spazio, infatti, diventa più facile percepire il terreno come bene comune che va salvaguardato e tutelato e grazie al contatto con la terra, si può creare un diverso legame col territorio in grado di sprigionare nuove idee per progettare la città e viverla.

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